Da sempre mi interrogo sull’esistenza di Dio. E continuo a farlo.
“Se Dio non esiste, tutto è permesso.”
“È possibile amare l’umanità senza credere in Dio.” — Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov
Recentemente, ho riletto avidamente I fratelli Karamazov, e la potenza di quelle pagine ha riacceso i miei antichi conflitti interiori — gli stessi che, in fondo, mi hanno aiutata a crescere. In particolare, oggi come allora, arrivata alle pagine de Il Grande Inquisitore, mi sono fermata: costretta a riflettere su tutto ciò che è stato compiuto in nome di Dio, sui crimini giustificati con la fede, sulla libertà che ci è stata concessa e che così spesso scegliamo di rifiutare.
Eppure, nel tentativo (fallito) di riconciliare i miei dubbi ancestrali, ci sono stati luoghi in cui non ho dubitato. Luoghi in cui ho persino creduto di avere la certezza assoluta, ferma, incontrovertibile, di condividere lo spazio euclideo con Dio — per usare le parole di Ivan Fëdorovič.
Questo mi è accaduto, sinora, solo quattro volte.
La prima volta è accaduto a Sergiev Posad, nella chiesa del grande monastero ortodosso, settanta chilometri da Mosca. Durante una liturgia a lume di candela, con le preghiere dei monaci che sembravano canti e l’ufficiante nascosto dietro il paravento delle icone, ho sentito che Dio era lì, tra quelle mura. E che noi, minuscoli, non potevamo comprenderne la grandezza.
La seconda, a Lourdes, su una panchina di fronte alla Grotta, dall’altra parte del fiume. Da lì ascoltavo i canti, le preghiere; da lì si intuivano le suppliche. È difficile spiegare cosa accada una volta varcati quei cancelli: si viene travolti dalla certezza di non trovarsi in un semplice luogo di culto. Si è colpiti da una pace che non sembra avere nulla di umano. La sensazione profonda di non essere più soli la si percepisce in ogni fibra del corpo. Quella pace non l’ho più ritrovata in nessun altro luogo al mondo.
La terza, alla Porziuncola, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli. Qui, dove si riceve l’Indulgenza plenaria per sé e per i propri defunti, i confessionali sono sempre pieni, le confessioni si susseguono in tutte le lingue del mondo. I fedeli aspettano in silenzio, accompagnati solo dal brusio delle preghiere. È in quelle penitenze, e in quel perdono, che assicurano (entrambi) la vita eterna, in un’atmosfera che non ha nulla di terreno, nulla di spiegabile, dove Dio sembra sovrastare tutto: ogni peccato, ogni male.
Infine, a Istanbul, nella Moschea Valide Sultan. Io, tra le donne e i bambini; di fronte a me la grande navata: la luce che entra dalle finestre si riflette sui lampadari bassi, sugli arabeschi. Anche il silenzio degli uomini, seduti, scalzi, sembra parte di quel luogo, di quel rito collettivo. E nel canto lento, per me incomprensibile, del muezzin, mi è parso di sentire il suono della voce di un Dio che nessuno, ormai, sembra più ascoltare.
Ecco, se Dio esiste — e io, oggi, continuo a non averne certezza — allora non ha patria. Non si riconosce in un unico popolo, né in un solo Credo.
Se Dio esiste, si è smarrito tra le troppe guerre combattute in suo nome, tra le troppe parole che gli sono state attribuite. Si è perso nei fanatismi che impongono il proprio Dio come l’unico Dio, dimenticando che la fede, se autentica, appartiene alla sfera più intima e personale e implica, per sua natura, pluralismo e rispetto reciproco.
In un tempo in cui i rosari vengono branditi come armi, e Dio evocato come giustificatore del potere sui corpi di ciascuno di noi, se Dio esiste… viene ucciso ogni giorno. In loop.

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